Era il 1996, era il tour di Macramè, era il mio primo concerto di Ivano Fossati. Verona, teatro Filarmonico. Mi ci ha portata la mia amica Chiara Casarella, che lo amava di già. Io invece Ivano ancora non lo conoscevo.
Non so se ci avete mai fatto caso: c’è un momento preciso in cui ci si accorge di essere innamorati. Un momento luminoso che è una piccola devastante irragionevole epifania, una rivelazione che ci modifica per sempre e non si torna indietro più. Con le canzoni di Ivano è successo pochi giorni dopo quel concerto. Avevo comprato i due storici live del ’93. Ero a casa, mi stavo preparando per uscire, nello stereo avevo messo Ivano, ero distratta. Improvvisamente la folgorazione. La canzone era Carte da decifrare.
Ecco, io non ce l’ho proprio per niente l’innamoramento facile, ma quando mi succede è la fine. Quando succede sono spacciata. E non voglio perdermi nulla e non mi spaventa nulla, neanche le lacrime, la fatica, la malinconia.
Un altro genovese, don Andrea Gallo, dice, più o meno con queste parole: che frase è “non ti amo più”? Non è possibile. Non amare più significa non avere amato mai.
Io la penso come don Gallo. L’amore ha un inizio, ma non una fine.
Negli anni in cui abitavo con Thomas e avevamo un gruppo musicale che si chiamava Statale 17, Fossati e De André li chiamavo i miei genovesi. Erano il nostro pane quotidiano. Riempivano la nostra musica e le nostre giornate. Avevo poco più di vent’anni, sognavo Genova, non c’ero mai stata. Quando morì De André andai a Genova per la prima volta nel giorno del suo funerale. Volevo essergli in qualche modo vicina.
Un fossatiano (un fossatiano vero) che legga il mio Mangiacuore, non può non riconoscere Ivano tra le righe. Non per l’esergo tratto da Il canto dei mestieri, non perché nel testo cito esplicitamente alcuni versi de La canzone popolare e di Italiani d’Argentina, ma perché Ivano c’è dappertutto. E lì. Nella lingua, nei dettagli, nel suono di certe parole. Ivano è lì, metabolizzato al punto da diventare altro, da diventare parole mie.
Fossati è uno dei miei maestri, uno dei miei punti di riferimento. Le parole di Ivano sono con me, mi accompagnano sempre. Non nella testa, ma nella carne tutta. Sono parole fatte carne.
Dal 1996 ho seguito Ivano in ogni suo tour, ho visto tanti concerti e partecipazioni varie, sono stata a sentirlo parlare al Festivaletteratura di Mantova, ho letto tutto ciò che lo riguarda, sono stata a Genova per la sua festa di compleanno al teatro Carlo Felice, compiva cinquantanni. Ho ricordi bellissimi, che qui non voglio raccontare. Li racconto a volte a voce, agli amici. Ho scritto di lui in Sex machine. L’immaginario erotico nella musica del nostro tempo (Auditorium, 2011), ma in fondo ho scritto di lui sempre.
Adesso, stasera, in questo Decadancing Tour che ho seguito a Milano, a Bologna, a Genova, a Napoli, ecco, stasera al teatro Filarmonico di Verona è stato il mio ultimo concerto, perché Ivano ha deciso che dal vivo non suonerà più.
Benvenuto anche il tuo nome fra le future nostalgie, Ivano.
Ma tanto è come dice don Gallo, sai? Per me è proprio così, come dice lui.
* “Una lunga fedeltà” è il titolo del libro che raccoglie gli scritti di Gianfranco Contini su Eugenio Montale. Mi sono permessa di prenderlo a prestito.