Bisogna sempre disobbedire ai violenti (René Girard)

la pietra dello scandalo - girard
Estratto da Violenza e reciprocità in La pietra dello scandalo, 2001 (Adelphi, 2004) di René Girard:

Agli appetiti e ai bisogni determinati dalla sfera biologica, comuni agli uomini e agli animali, legati a oggetti fissi che di conseguenza sono sempre gli stessi, si possono contrapporre il desiderio o la passione, fenomeni esclusivamente umani. Vi è passione, desiderio intenso, a partire dal momento in cui le nostre aspirazioni indeterminate si fissano su un modello che ci suggerisce cosa desiderare, il più delle volte desiderandolo lui stesso. Questo modello può essere la società nel suo insieme, ma è spesso un individuo che noi ammiriamo. Gli uomini hanno il potere di trasformare in modello chiunque ai loro occhi sia dotato di prestigio, e questo non vale solo per i bambini e gli adolescenti, ma anche per gli adulti.

Osservando le persone intorno a noi, si intuisce subito come il desiderio mimetico, o l’imitazione desiderante, domini sia i nostri mimimi gesti, sia ciò che è più importante nelle nostre vite, la scelta di un coniuge, quella di una carriera, il senso stesso che noi diamo all’esistenza.

Quanto si chiama desiderio o passione non è imitativo, mimetico, accidentalmente o di tanto in tanto, bensì sempre. Lungi dall’essere ciò che è più intimamente nostro, il nostro desiderio proviene dagli altri. Esso è per definizione sociale…

[…]

Dato che desideriamo quello che desidera un modello che ci è molto vicino nello spazio e nel tempo, ragione per cui l’oggetto a cui mira l’altro diventa alla nostra portata, noi ci sforziamo di togliere all’altro quell’oggetto, e la rivalità con lui si fa inevitabile.

Questa è la rivalità mimetica, che può raggiungere un livello di intensità straordinario, ed è responsabile della frequenza e dell’intensità dei conflitti umani. La cosa strana, però, è che nessuno ne parla mai. La rivalità mimetica fa di tutto per nascondersi, perfino agli occhi dei diretti interessati, e in genere ci riesce.

Nei combattimenti intraspecifici che si svolgono fra gli uomini la prospettiva di una morte concreta non arresta i combattenti. La rivalità mimetica è già presente tra i mammiferi, ma è di minor intensità, e quasi sempre si arresta prima di divenire fatale. Essa conduce a relazioni gerarchiche di dominanza che, come regola generale, sono dotate di maggiore stabilità dei rapporti umani, soprattutto dei rapporti umani quando sono consegnati al mimetismo che è loro proprio.

Allorché un imitatore si sforza di togliere al proprio modello l’oggetto del desiderio che entrambi condividono, quest’ultimo ovviamente si oppone, e il desiderio si fa più intenso da entrambe le parti. Il modello diviene l’imitatore del suo imitatore, e viceversa. Tutti i ruoli si scambiano e si riflettono in una duplice imitazione sempre più perfetta, che rende gli antagonisti via via più simili tra loro.

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La filosofia romantica e moderna disprezza l’imitazione, e col passare del tempo questo disprezzo non fa che rafforzarsi. La cosa strana è che tale atteggiamento si fonda su una supposta incapacità degli imitatori di opporsi ai loro modelli! I pensatori vedono nel mimetismo una rinuncia all’autentica individualità, poiché in esso l’individuo si annienta dinanzi agli «altri» e si rimette all’opinione comune.

L’imitazione passiva e sottomessa in effetti esiste; ma l’odio del conformismo, l’individualismo a oltranza non sono meno imitativi, e costituiscono oggi un conformismo in negativo ancor più temibile del precedente. Mi sembra che l’individualismo moderno sia la negazione sempre più disperata di un desiderio mimetico che ognuno di noi cerca di far ricadere sugli altri, sui comuni mortali, trasformati frequentemente in oggetto del nostro disprezzo di comodo.

Nell’imitare gli «altri» – siamo soliti dire – noi rinunciamo alla nostra «personalità». Ciò che caratterizza gli imitatori non sarebbe la violenza, ma la passività, il comportamento gregario. È questa visione che definisco «menzogna romantica», la cui versione più celebre, nel XX secolo, si deve a Martin Heidegger. In Essere e tempo, l’Esserci «inautentico» coincide con il «si» (das Man) del rifiuto collettivo della responsabilità. L’imitazione passiva e conformista rinuncia ad affermarsi e lottare. Tutto questo si oppone all’Esserci autentico sostenuto dal filosofo stesso, quello che non ha paura di impegnarsi contro avversari degni di lui, nello spirito del Polemos eracliteo, cioè della violenza, del conflitto che è «padre e re di tutte le cose». Il gusto della lotta e della contesa sarebbe una prova di autenticità, di volontà di potenza nel senso nietzcheano del termine.

La passione e il desiderio, in realtà, non sono mai autentici nel significato che intende Heidegger. Non sono un capitale che si sborsi di tasca propria, ma una somma presa in prestito da altri. Invece di vedere nei nostri conflitti una prova di autonomia, come fa Heidegger, bisogna vedere in essi precisamente il contrario, la conferma della natura mimetica dei nostri desideri.

Noi che crediamo di essere «individualisti» abbiamo l’impressione di non imitare nessuno, visto che ci contrapponiamo violentemente al loro modello. Ma anziché essere incompatibile con l’imitazione, la violenza «eraclitea» è una versione idealizzata della rivalità mimetica.

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Gli uomini sono esposti a un contagio violento che spesso conduce a cicli di vendette, a violenze a catena che sono palesemente tutte simili fra loro, dal momento che tutte si imitano. Per questo sostengo che il vero segreto del conflitto e della violenza è l’imitazione desiderante, il desiderio mimetico insieme alle feroci rivalità che esso genera.

Ma, anche ammettendo che la rivalità mimetica sia la causa di molti conflitti, si potrebbe pensare che vi siano altri rapporti conflittuali dove il desiderio è assente, e che io ne esageri il ruolo quando ne faccio la causa principale dei conflitti umani.

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Per rispondere a questa obiezione, prendiamo un esempio insignificante e normale: voi mi tendete la mano e, di ricambio, io vi tendo la mia. Quello che compiamo insieme è il rito inoffensivo della stretta di mano. L’educazione esige che, davanti alla vostra mano tesa, io faccia lo stesso. Se, per una ragione qualunque, io rifiuto di partecipare al rito, rifiuto di imitarvi, qual è la vostra reazione? Anche voi ritirate subito la vostra mano, dimostrando nei miei confronti una diffidenza almeno uguale o probabilmente superiore a quella che io manifesto verso di voi. […] Se io mi sottraggo alla stretta di mano, se rifiuto insomma di imitarvi, allora siete voi a imitarmi riproducendo il mio rifiuto, copiandolo.

L’imitazione che doveva concretizzare l’accordo, risorge, cosa strana, per confermare e rinforzare il disaccordo. Una volta di più, in altri termini, l’imitazione trionfa, e allora si vede bene in quale maniera rigorosa, implacabile la doppia imitazione strutturi tutti i rapporti umani.

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Se un personaggio, che indicheremo come B, non risponde ad A che gli tende la mano, A si sente subito offeso e a sua volta rifiuta di stringere la mano a B. Rispetto al primo, questo secondo rifiuto viene troppo tardi e rischia di passare inosservato. A si sforza allora di renderlo più visibile calcandolo un po’, forzando impercettibilmente i toni. Forse volterà clamorosamente le spalle a B. Egli non ha la minima intenzione di innescare una spirale violenta, ma desidera semplicemente «rendere la pariglia», far capire a B che non gli sfugge il carattere insultante del suo comportamento.

Quello che A interpreta come un rifiuto scortese non era magari che una lieve distrazione da parte di B, la cui attenzione era rivolta ad altro. Immaginare un insulto deliberato è, per la vanità di A, meno doloroso che passare inosservato anche per un solo istante. […] B trova ingiusta l’improvvisa freddezza che A gli dimostra e, per mettersi al suo stesso livello, nel rispondere ad A aggiungerà un supplemento di freddezza al contegno freddo dell’altro. Né A né B desiderano il disaccordo, e ciò nonostante esso si è verificato.

[…]

I rapporti umani sono una doppia imitazione perpetua la cui ambiguità viene espressa perfettamente dalla parola reciprocità. Il rapporto può essere benevolo e pacifico, oppure malevolo e bellicoso, ma in ogni caso senza mai cessare di essere – cosa curiosa – mimeticamente reciproco.

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La doppia imitazione è dunque dappertutto. Persino nella sua forma più meccanica, essa può generare lo stesso tipo di conflitto della rivalità basata sul desiderio mimetico. La concordia si tramuta in discordia per una serie continua di piccole rotture simmetriche […]. La causa principale è la tendenza a sovracompensare l’ostilità presunta dell’altro, con il risultato di rafforzarla sempre di più.

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I nostri rapporti possono dunque degenerare un piccolo passo dopo l’altro, senza che nessuno si senta responsabile della loro degenerazione. La violenza dei non violenti che tutti crediamo di essere non è mai l’opera di individui particolarmente «aggressivi» di cui ci potremmo liberare con misure preventive adguate (espulsione rituale, ecc.); non è nemmeno il frutto di un istinto aggressivo, di un carattere ineliminabile della nostra natura umana al quale bisogna rassegnarsi. Questa violenza è il risultato di una collaborazione negativa che il nostro accecamento narcisista fa sempre in modo di non riconoscere.

Noi pensiamo che per sfuggire alla responsabilità della violenza sia sufficiente rinunciare all’iniziativa violenta. Ma nessuno si accorge mai di prendere questa iniziativa. Perfino i soggetti più violenti credono sempre di reagire a una violenza che proviene dagli altri.

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Questa cecità verso il mimetismo lascia tutte le porte spalancate al diffondersi contagioso della violenza. Come stupirsi del fatto che le morali ordinarie non hanno mai cambiato nulla nei meccanismi abituali della violenza? Esse partecipano in pieno alle illusioni abituali al riguardo, ed è proprio per questo che noi le accettiamo; ci rassicurano sulla nostra innocenza e giustificano le nostre nobili lamentazioni sulla violenza universale, senza farci mai venire il minimo dubbio per quel che ci riguarda, senza farci mai venire in mente che noi per primi, nel nostro piccolo, possiamo dare un valido contributo ai fenomeni che condanniamo.

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«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e Dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi vuol portarti in tribunale per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Matteo, 5, 38-40)

La maggior parte dei moderni vede in queste raccomandazioni un’«utopia pacifista» manifestamente ingenua e perfino deplorevole perché inutilmente servile, dolorista, e probabilmente «masochista». […] Di che cosa sta parlando in realtà il brano che ho citato? All’inzio parla di una persona furiosa che ci prende a schiaffi senza provocazioni, poi di un individuo che si prodiga per rubarci legalmente la tunica, che nel mondo di Gesù era l’abito principale, e spesso l’unico.

Delle condotte così esemplarmente odiose suggeriscono la volontà di provocare. Queste persone malvage non chiedono di meglio che esasperarci, allo scopo di trascinarci con loro in un processo di escalation violenta. Fanno tutto il possibile, in fondo, per provocare le rappresaglie che giustificherebbero le loro violenze ulteriori. Costoro aspirano al pretesto della «legittima difesa». Se noi li trattassimo come loro trattano noi, essi potrebbero subito mascherare la loro ingiustizia sotto le sembianze di rappresaglie pienamente giustificate dalla nostra violenza nei loro confronti. È pertanto necessario rifiutare questa collaborazione negativa a cui l’aggressore ci vorrebbe trascinare.

Bisogna sempre disobbedire ai violenti, non solo perché ci spingono al male, ma perché la nostra disobbedienza è l’unico mezzo per bloccare quel coinvolgimento collettivo che è sempre la peggior forma di violenza, quella che si diffonde come un contagio.”

René Girard, da Violenza e reciprocità in La pietra dello scandalo, 2001. (Adelphi, 2004)